Il Contenuto Scabroso di questo Post è consigliato a un pubblico Adulto, si sconsiglia la lettura ai minorenni e agli animi sensibili.

 

2nq7ct3Amber aprì gli occhi nonostante le fitte lancinanti che le trapassavano la testa; con la vista appannata si guardò attorno cercando di riprendere contatto con la realtà.
Cosa era successo? Dove si trovava?
L’ambiente era sconosciuto. La luce flebile di una lampadina illuminava quella che sembrava una cella.
Cercò di alzarsi in piedi, ma un capogiro la costrinse a sedersi sulla branda dove era stata abbandonata dai suoi misteriosi rapitori.
Era ancora intontita dalla botta.
Sfiorò con delicatezza il punto dove era stata colpita e sentì sulle dita il sangue fremere e pulsare sotto la pelle tumefatta.

Faceva male. Non c’erano dubbi che qualcuno le avesse sferrato un colpo con violenza sulla nuca e portata in quel tugurio, approfittando della confusione dei festeggiamenti del Carnevale.

Carnevale. Tutta colpa di quella festa. Si era intestardita per poter partecipare a quello di New Orleans, affascinata dal folklore di quell’evento.

Ed ora era prigioniera.

Perché?

Con lentezza cercò di nuovo di alzarsi, si appoggiò al muro per sostenersi; con le gambe traballanti cominciò a muovere qualche passo intorno alla sua prigione.

La vista cominciava a snebbiarsi e i contorni di quella realtà cominciarono a tornare nitidi.

Fermandosi nel centro di quel luogo tetro e freddo, sconvolta, Amber fece correre lo sguardo intorno a sé: si trovava in un cubo di pietra con un cancello di ferro come accesso, dalle sbarre spesse e dall’apparenza robuste.

Lapidi.

Era circondata da tombe. Sulle pareti disposte una sopra l’altra c’erano le epigrafi dei defunti che giacevano in quei sepolcri.

Lentamente si avvicinò ad un’iscrizione.

Marie Isabelle Charboniére. Nata e Morta il 13 Luglio 1832.

Francois Maurice Charboniére. Nato il 13 Luglio 1832 – Morto il 25 Luglio 1832.

Amber sfiorò con delicatezza le scritte sbiadite dal tempo. Due gemelli, morti a poca distanza l’uno dall’altra.

Le tragedie non hanno tempo.

Non sapeva cosa avesse spezzato tanto prematuramente la vita di quelle innocenti creature, ciò di cui era certa era che presto le avrebbe raggiunte nel luogo dell’ultimo viaggio.

Si strinse le braccia intorno al corpo, respirando profondamente per riprendere il controllo della situazione. Il panico non era una soluzione al problema, per quello ci sarebbe stato tempo più tardi. Ora doveva pensare con lucidità, trovare una via d’uscita.

La sensazione di essere osservata da occhi invisibili la afferrò all’improvviso attanagliandole il cuore in una stretta ferale.

Amber si guardò intorno inquieta mentre con la coda dell’occhio le sembrò di percepire un’ombra in agguato tra gli angoli bui della cella.

L’immaginazione le stava giocando brutti scherzi.

Con furia si precipitò alle sbarre di quell’arcaica cella afferrandole con violenza, nell’illusione di riuscire a scardinarle.

«C’è qualcuno? Rispondete? Perché mi trovo qui? Chi siete?». Urlò con furia mentre un silenzio spettrale la circondava beffardo e indifferente alla sua inquietudine.

Con stizza diede un calcio a un sasso, che con un tonfo cozzò contro il muro.

Le forze stavano tornando; più il corpo rinvigoriva più il desiderio di fuggire cresceva in lei.

Quell’ambiente era opprimente, le pareti sembravano stringerla in una morsa mortale.

Era la sua immaginazione, ma quella sensazione di costrizione non voleva abbandonarla.

Il silenzio angosciante che la circondava la rendeva irrequieta. Amber cominciò a camminare nervosamente tra le mura della sua prigione, aspettando con insofferenza che i suoi carcerieri palesassero la loro presenza.

Si portò una mano alla nuca, pulsava dannatamente, e nello stesso tempo percepì lo sguardo invisibile di un essere spettrale su di sé: un fantasma, probabilmente, dal momento che si trovava in una cripta. O forse era solo la sua galoppante immaginazione che le giocava tiri mancini?

Doveva trovare un modo per uscire da quella cella e da quel pasticcio, prima d’impazzire. Si rifiutava di arrendersi ad una sorte tanto assurda.

Si mise alla ricerca di qualche oggetto che potesse utilizzare per forzare la serratura, purtroppo la sua borsa era andata persa chissà dove durante il rapimento.

I suoi lunghi capelli biondo pallido non erano fermati da nessuna forcina, non indossava spille, fermagli o altro ancora che potesse usare come arnesi da scasso.

La paura cominciò a serpeggiare dentro di lei, cercò di tenerla a bada, ma la situazione dava poche speranze a cui appigliarsi.

Le orecchie tese a percepire ogni movimento, ogni rumore, ogni passo, nell’attesa spasmodica di qualcuno che potesse darle delle risposte.

Era così concentrata che sobbalzò quando si ritrovò davanti, dall’altro lato del cancello, una lugubre figura incappucciata.

«Chi siete? Cosa volete da me?». Sibilò con rabbia afferrando le sbarre e scotendole con violenza.

«Una giovane donna dallo spirito indomito. Ottimo. Prendi questi abiti e indossali». L’ordine giunse cavernoso, camuffato dal cappuccio che copriva completamente i lineamenti dell’uomo.

«Mi rifiuto». Si ribellò Amber disdegnando con alterigia il pacco d’indumenti che le venivano offerti.

«Femmina: l’obbedienza è la tua unica possibilità, la punizione per l’insubordinazione ti porterebbe solo dolore». Minacciò gelido porgendole gli abiti.

Amber lo fissò con odio e afferrò di malavoglia l’involto. La seta fine le scivolò tra le mani come se fosse dotata di vita propria.

«Dovrei cambiarmi davanti a voi?». Ribatté irritata. La rabbia era l’unica emozione che si imponeva di provare, le serviva per tenere a bada il terrore che le attanagliava le viscere.

L’uomo incappucciato non replicò ma come per magia svanì tra le ombre, quasi ne fosse stato inghiottito. Amber rimase ad osservare interdetta lo spazio vuoto che solo pochi istanti prima era occupato dal suo aguzzino. L’ansia le giocava brutti scherzi: pur essendo certa che si fosse semplicemente confuso tra le ombre, ebbe quasi la sensazione di averlo visto dissolversi nel nulla. L’effetto ottico era stato plateale.

Certa di aver trovato una spiegazione logica alla scomparsa improvvisa dell’energumeno incappucciato, Amber si dedicò all’abito di seta che le era stato consegnato.

Il motivo per cui le era stato chiesto di cambiarsi cominciava a delinearsi nella sua mente. Già si vedeva come vergine sacrificale in qualche rito oscuro di una setta satanica.

Il fatto che lei fosse vergine era inquietante.

Amber fissava l’abito come se potesse trovare una risposta ai suoi dubbi, ma la tunica di foggia greca non sembrava volerle rispondere.

L’unica soluzione era cedere, visto che sembrava la sola via per uscire da quella cella e trovare una via di fuga.

Si tolse il cardigan rosso scuro e il vestito nero che metteva in evidenza il corpo formoso.

In tanga e reggiseno di pizzo bianco, s’infilò l’abito, che la avvolse come se fosse stato creato per lei.

Lo spacco vertiginoso arrivava all’inguine e ad ogni passo mostrava le gambe flessuose; la scollatura pronunciata esaltava e rivelava le forme morbide ed abbondanti del seno. L’abito aderiva talmente al suo corpo che Amber si sentì a disagio nonostante fosse abituata ad indossare abiti provocanti.

«Ti sta alla perfezione. Il Padrone sarà soddisfatto». Intervenne il suo rapitore, riapparso all’improvviso, così come era sparito. Spaventata, Amber urlò.

«Sei impazzito? Vuoi farmi venire un infarto spuntando fuori così all’improvviso?». Gridò furiosa portandosi una mano sul cuore, che batteva a ritmo accelerato per la paura.

L’uomo non replicò, ma aprì il cancello. Senza usare nessuna chiave. Amber osservò quei gesti con occhi sgranati non riuscendo a capire come ci fosse riuscito: non poteva essersi sbagliata, quella porta, prima, era bloccata.

«Femmina, seguimi senza fare storie». Senza attendere una risposta cominciò a incamminarsi lungo il tetro corridoio, dando per scontata l’obbedienza della ragazza.

Di malavoglia e interdetta dinanzi a tanta arroganza, Amber lo seguì tenendosi a distanza, osservando ogni varco, ogni anfratto del percorso che si sarebbe potuto rivelare utile alla fuga.

Il tunnel sembrava infinito e senza alcuna apertura, solo un susseguirsi di volte e nicchie cieche.

Lo vide fermarsi dinanzi ad uno specchio gigantesco dalle elaborate decorazioni dorate, ai cui lati si diramavano altri tenebrosi corridoi.

«Affrettati femmina». La esortò gelido.

«Mi chiamo Amber, non femmina. Gradirei che usassi il mio nome». Replicò stizzita e per nulla intenzionata a farsi dominare.

«Sei solo un grembo. Il tuo nome non conta». Spiegò lui, inespressivo come si rivolgesse a un essere inferiore.

 

«Grembo? In che senso?». Domandò esterrefatta la ragazza dinanzi a quella misteriosa affermazione.

 

«Lo saprai presto. Seguimi». E scomparve oltre lo specchio.

Amber rimase imbambolata dinanzi allo specchio non riuscendo a credere ai suoi occhi, anche se ultimamente di cose strane ne aveva viste parecchie.

Finire in mezzo agli adepti di una setta dedita a riti satanici era già di per sé poco tranquillizzante, ma in quel momento Amber ebbe la nitida e terrorizzante sensazione di essersi cacciata in un guaio ancor più complicato.

E ora?

Non fece in tempo a formulare quel pensiero che una mano spuntò dallo specchio, la afferrò e la tirò all’interno, incurante delle sue grida.

Le sembrava di fluttuare nell’acqua, anche se non era bagnata. La figura incappucciata la teneva per un braccio con forza, costringendola a seguirlo in quello che sembrava la continuazione del tunnel, ma che allo stesso tempo forse non lo era. Era immersa in un mondo fluido e azzurrognolo. Surreale.

La testa prese a girarle.

Una porta colossale si delineò dinanzi a loro. Si aprì maestosa al loro passaggio e si richiuse dietro di loro con un rombo tonante che sembrò scaturire dalle viscere dell’inferno.

La scena che si presentò agli occhi di Amber era raccapricciante.

La realtà non era più deformata. Era nitida, ma apparteneva a un altro tempo.

Si trovò catapultata indietro nei secoli, in pieno periodo greco-romano. Dinanzi a lei un’ampia esedra era colma di tavoli imbanditi di ogni ben di dio. Triclini erano posti ovunque, cosparsi di morbidi cuscini.

Amber osservava disgustata le scene esplicitamente sessuali che le si pararono davanti. Era finita in un’orgia.

Donne nude erano avvinghiate a creature simili ai satiri, figure mitologiche di alcuni dipinti che aveva visto nelle riviste d’arte e su internet.

Ovunque girasse lo sguardo poteva vedere amplessi infuocati e sentire i gemiti e i grugniti di piacere che li accompagnavano.

Rimase sconvolta nell’osservare una ragazza poco più che adolescente mentre veniva montata da uno di quegli esseri caprini: gridava dal piacere mentre lui, penetrandola selvaggiamente, le succhiava con voluttà i seni.

«Ma cosa significa tutto questo?». Sussurrò esterrefatta al suo carceriere, nauseata a quella vista.

«A te è concesso un onore più alto. Seguimi». Senza aggiungere altro cominciò a camminare tra quei corpi avviluppati.

Amber lo seguì cercando di non guardare cosa accadeva intorno a lei, anche se non era affatto semplice.

A ogni passo, ogni genere di gioco sessuale si profilava al suo sguardo. Un conato le si bloccò in gola alla vista di due satiri che montavano una donna, tenendola tra di loro, uno da dietro e l’altro affondando selvaggio nella sua vagina. La donna sembrava gradire tali aberranti attenzioni.

All’improvviso una mano pelosa le afferrò un braccio e si ritrovò schiacciata contro il corpo rovente di una di quelle creature. La sua erezione spingeva contro il fianco, la mano le palpava il seno. Amber cominciò a strillare e a divincolarsi.

«Questa femmina non è per voi». Parlò la voce atona con ferocia. Il suo assalitore venne scagliato lontano con violenza.

«Stammi accanto». Le ordinò impassibile riprendendo a camminare attraverso quel marasma: nessuno osò più toccarla, nonostante occhi vogliosi continuassero a seguirla, spogliandola con lo sguardo.

Amber per la prima volta obbedì senza fiatare. Si sentiva sporca dove quelle mani l’avevano toccata.

La sua avventura era diventata un incubo. E lei che si era sempre vantata di sapersela cavare senza bisogno di nessuno.

In quel momento non si sentiva affatto sicura di riuscire a togliersi da quell’impiccio. Rimpiangeva di aver disubbidito, di essere fuggita a New Orleans intenzionata a godersi quei giorni di Carnevale.

Il suo desiderio di ridere, ballare, divertirsi senza pensare alla sua vita, al suo passato e al suo futuro sembrava così frivolo dinanzi all’enormità del guaio in cui si era cacciata.

Superarono il varco che separava l’emiciclo dall’androceo che si palesò in tutta la sua magnificenza.

Sembrava un antico tempio greco più che una domus; ai lati dell’immensa sala c’erano enormi colonne. Sul fondo, una scalinata portava ad un palco, dove era posta una tavolata colma di cibo e un triclinio più grande del normale. Tendaggi di velo bianco e verde, lampade dalla luce guizzante, rendevano quell’angolo un’alcova adatta alla seduzione.

Anche nell’androceo, coppie avvinghiate erano impegnate in tumultuosi atti sessuali, sotto lo sguardo fiero delle divinità immortalate nelle gigantesche statue poste nelle nicchie tra le colonne di malachite.

Il cammino sino alla piattaforma, perché non c’erano dubbi che fosse quella la loro meta, avvenne senza alcun incidente, come se quelle creature caprine ormai sapessero che non dovevano toccarla. Amber rabbrividì disgustata sentendo strisciare come vermi sulla pelle i loro sguardi bramosi.

«Hai urlato quando il Luperco ti ha afferrata. Le femmine umane godono al loro tocco sensuale, specie nei giorni a loro dedicati. Il loro potere di attrazione è impossibile da respingere. Ma tu hai urlato e non di piacere». Esordì la creatura incappucciata. Non sembrava una domanda, pertanto Amber non replicò, lasciando che si desse da solo delle risposte.

Luperco.

Era questa la definizione di quegli esseri? Non le sembrava che avessero molto in comune con i lupi.

Il misterioso accompagnatore si fermò ai piedi dell’ampia scalinata di opale dagli iridescenti riflessi lattiginosi. S’inginocchiò solenne e impose anche ad Amber di fare altrettanto, strattonandola con forza verso terra.

Pur riuscendo a mantenere l’equilibrio e a non rovinare al suolo, atterrò pesantemente sulle ginocchia. Trattenendo un gemito di dolore, guardò con odio l’aguzzino.

L’avrebbe pagata molto cara, giurò a se stessa.

«Mio Padrone. Vi porto la fanciulla pura che avete richiesto». Sussurrò con umiltà.

«Dulos. Mi hai fatto attendere molto». Una voce stentorea rimbombò intorno a loro. Impossibile capirne la provenienza.

«Perdonate Padrone. Trovare una vergine in quest’epoca di bassa moralità è stato difficile». Cercò di giustificarsi il servo. Per la prima volta la sua voce era incrinata dall’emozione. Paura.

«Sai che non sopporto le scuse». A quelle parole Dulos venne scagliato con violenza contro un muro da un’energia prodigiosa.

Amber osservò inorridita la figura incappucciata afflosciarsi contro la parete di lapislazzuli, e farsi piccola attendendo con trepidazione un altro colpo, mortale questa volta.

Che non arrivò.

«Femmina, vieni a me». Ordinò la voce.

«Col cavolo», Reagì Amber, per nulla intenzionata ad obbedire. Meglio la morte.

«Osi disubbidirmi! Hai visto il mio potere, non avrò remore a usarlo contro di te». Minacciò la voce con ira.

«Fate pure. Preferisco morire piuttosto che cedere ai vostri piani». Continuò testarda la ragazza, cercando di capire dove fosse nascosto.

«Kore. Sei molto coraggiosa. E’ intrigante. Mi piace». La voce divenne roca e seducente.

Amber si ritrovò prigioniera di braccia muscolose, che la strinsero con forza contro un torace possente. Il corpo morbido della ragazza aderiva contro quello visibilmente eccitato dell’uomo o creatura che fosse.

«Lasciatemi». Urlò la ragazza dibattendosi con violenza. Era come smuovere una montagna.

Lui scoppiò in una sonora risata, la sollevò come fosse senza peso, e la adagiò sul triclinio, facendola affondare nei morbidi cuscini di seta cangiante.

Il corpo possente dell’uomo la coprì all’istante, imprigionandola con la sua forza straordinaria.

«Guardami». Ordinò imperioso.

Amber si ritrovò incatenata allo sguardo dorato di un uomo bellissimo. Il viso sembrava cesellato, era perfetto. Il naso diritto, la mascella volitiva, il taglio obliquo degli occhi ombreggiati da lunghe e folte ciglia e sormontati da sopracciglia dorate come i riccioli ribelli che ricadevano sulla fronte spaziosa. Anche la pelle era dorata.

S’irrigidì ulteriormente, cercando di allontanare quel corpo dall’erezione che premeva bramosa contro il suo ventre.

«Capelli come raggi di luna e occhi profondi come la notte. Una combinazione rara e preziosa. Sarà un piacere affondare nel tuo grembo caldo». Sussurrò lui con voce arrochita dal desiderio strusciando il suo pene contro di lei. Solo pochi strati di stoffa separavano Amber dall’essere violata.

Lacrime di sconforto scesero, e lei non riuscì a fermarle: era furiosa con se stessa per quell’atto di debolezza che non riusciva a reprimere.

«Piangi? Perché? Stai per vivere il momento più bello della tua vita. Non tutte le kore hanno la possibilità di godere tra le mie braccia». Domandò perplesso l’uomo dorato.

«Preferirei rinunciare a questo onore». Replicò singhiozzando Amber.

«Rinunciare a me! Come osi gyne dire una bestemmia simile! Ti rendi conto chi sono?». Sibilò furioso avvicinandosi sino a sfiorarle il naso con il viso.

«No! E non m’importa». Ribatté per nulla intenzionata a cedere nonostante le lacrime traditrici.

A quelle parole lo splendido viso dell’uomo perse tutta la sua bellezza e si trasformò sotto i suoi occhi. I lineamenti si contorsero portando alla luce un volto completamente diverso.

Sotto gli occhi luciferini che la fissavano con astio, Amber vide un naso adunco, labbra sottili tirate in un ghigno, una barbetta che copriva il mento. L’uomo dorato era scomparso e al suo posto c’era una bestia.

«Io sono il Pan. Io sono il Tutto. Come osi respingermi, gyne. Quello che poteva essere un momento di delizia, sarà ora per te solo dolore». Affermò con rabbia piombando sulle labbra piene della ragazza come un predatore, obbligandola ad aprire la bocca alla sua lingua rasposa, al bacio insultante.

La ragazza cercò di liberarsi da quella morsa ferrea, ma il corpo era intrappolato. Quell’intimità le dava il voltastomaco.

Sentì la mano della creatura palparle il seno, mentre la bocca umida abbandonava le labbra per leccarle la pelle di seta del collo scendendo sempre più giù.

Amber sentì la stoffa dell’abito lacerarsi, il tocco insultante della bestia sulla pelle nuda del seno, le dita stringere il capezzolo attraverso il velo di pizzo del reggiseno.

Era disperata, non voleva accettare di dover finire in questo modo. Stuprata da un mostro.

Cominciò a urlare, a colpire alla cieca cercando di fermare l’assalto al suo corpo. Un pugno raggiunse l’obiettivo: lo sentì grugnire di dolore, ma l’attimo dopo un violento schiaffo le fece voltare il viso. Un rivoletto di sangue le uscì da un angolo della bocca.

La bestia si sedette a cavalcioni sul suo grembo, serrandole le gambe. Era nudo, il pene eretto esposto al suo sguardo schifato.

«Pagherai cara la tua ribellione gene». Le promise con un ghignò maligno.

Con gesto fulmineo le squarciò l’abito e lo gettò via soddisfatto, mentre osservava lo splendido corpo della giovane coperto solo dall’esigua biancheria di pizzo nero.

Amber cercò di coprirsi con le mani, ma lui le afferrò e le bloccò sopra la testa con una mano, poi la costrinse a divaricare le gambe, si posizionò tra di essere strusciandole il pene sul pube.

Con la mano libera strappò via il tanga, lasciandola completamente esposta alla sua lussuria.

Amber sentì il terrore attanagliarle le viscere, non riusciva ad accettare di venir stuprata. Prima che fosse troppo tardi ingoiò l’orgoglio e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

«Danteeeeeeeeeeeeeeee! Danteeeeeeeeeeeee! Hai vinto. Ti prego, non lasciare che lo faccia. Ti prego». Implorò in lacrime sotto lo sguardo sbalordito di Pan che si fermò come paralizzato.

Il tempo nell’androgeo si fermò, ogni essere si immobilizzò. Non Amber, che con difficoltà riuscì a districarsi dalla presa del satiro. Con gambe tremanti scese dal triclinio, recuperò la stoffa a brandelli dell’abito e se la strinse addosso nonostante servisse ormai a ben poco per coprire il suo corpo esposto.

Si sedette stancamente sui gradini osservando giungere la figura oscura che si avvicinava con lentezza come fosse il padrone del mondo.

Dante. Il demone della Morte e della Distruzione. Con passo predatorio raggiunse Amber e la guardò dall’alto della sua imponente altezza, con i suoi freddi occhi di ghiaccio, senza che nessuna emozione trasparisse da quello sguardo impassibile.

«Siete pronta per tornare a casa, principessa?». Domandò con voce profonda e formale.

Amber lo osservò con astio, niente lo impressionava, niente incrinava quel muro impenetrabile di gelida indifferenza.

«Avresti lasciato che mi stuprasse?». Chiese rabbiosa. Sino alla fine aveva creduto che lui sarebbe intervenuto, aveva percepito la sua presenza nella cripta. Era stato lì tutto il tempo, ma non si era intromesso.

«E’ una domanda che non avrà mai risposta. Mi avete chiesto aiuto». Replicò Dante con indifferenza.

«Ti odio, Guardiano». Sibilò con rabbia non trovando altro modo per scaricare l’astio che provava nei confronti di quell’essere senza cuore.

«I vostri sentimenti verso di me sono ininfluenti». Precisò con distacco togliendosi il mantello nero e consegnandolo alla ragazza.

Amber lo prese e lo avvolse intorno al corpo nudo lasciando cadere a terra i brandelli di seta. Avvertiva il profumo che ancora impregnava il tessuto. Il suo odore, un miscuglio esotico che la lasciava sempre senza fiato.

Dante si avvicinò alla ragazza, con tocco delicato fece sparire la ferita dalla bocca, dopo di che la afferrò per le spalle e in pochi secondi si ritrovarono nelle stanze di lei, nel palazzo sotterraneo della Signora Oscura, Lilith. La Padrona assoluta delle Stirpi infernali.

La madre di Amber.

«Spero che questa esperienza vi sia servita di lezione, principessa. Finché non affronterete il rito di passaggio, non sarete che una semplice umana, soggetta alle loro leggi, alla loro fragilità». Sentenziò con quel tono di superiorità che Amber tanto odiava.

«Guardiano, se hai finito la tua lezioncina, puoi anche togliere il disturbo. Non ti ringrazierò per quello che hai fatto. Avresti dovuto intervenire prima e senza che te lo chiedessi, invece hai lasciato che la situazione degenerasse pur di sentirmi implorare il tuo aiuto. Spero di aver soddisfatto il tuo capriccio». Lo congedò con alterigia dirigendosi verso il bagno intenzionata a immergersi nell’acqua finché non avesse lavato via dalla pelle quella brutta esperienza.

«Principessa, dal mio punto di vista i capricci erano vostri. Siete stata voi a voler per forza partecipare a quella ridicola festa umana. Il Carnevale. Vi avevo avvisata che in quei giorni i demoni e gli spiriti della lussuria si scatenano. Sono i giorni in cui sin dall’alba dei tempi si celebravano i riti della fertilità, quando il sangue degli uomini si mischiava con quello dei demoni. Come credete che sia avvenuta l’evoluzione della razza umana? Attraverso l’innesto di sangue satanico. So badare a me stessa, mi avete risposto. Meditate su questo prima di accusare me di capricci». La apostrofò lapidario per poi svanire senza attendere una replica.

«Danteeeeeeeeeeee! Maledetto torna indietro. Facile scappare durante una discussione per avere l’ultima parola». Gridò stizzita alla stanza vuota, frustrata per non aver potuto replicare  in quell’annosa diatriba con quella maligna creatura, che la sua potente madre le aveva assegnato come guardiano e protettore.

Amber era furiosa con quel demone infernale, mai una volta che perdesse il controllo, sempre freddo, sempre imperturbabile.

Così dannatamente bello e affascinante, non riusciva a rimanere arrabbiata con lui molto a lungo. Sospirò con tristezza immergendo la testa sotto l’acqua per cercare di dimenticare le ultime ore della giornata.

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Dante ricomparve dinanzi a Pan, che lo guardò atterrito.

«Potente Signore, cosa posso fare per voi?». Domandò questi ossequioso. Tutta l’arroganza scomparsa dinanzi al più potente dei demoni.

L’ultimo dei Principi del Caos.

«Hai osato toccare con le tue luride mani il corpo incontaminato della principessa. Quale credi sia la punizione appropriata a tale crimine?». Replicò ferale il demone dai lunghi capelli di fiamma, mentre il suoi occhi di ghiaccio divennero braci ardenti e il fuoco dell’ira che aveva trattenuto sino a quel momento scaturì in tutta la sua potenza distruttiva, scagliandosi con violenza contro Pan.

«Mio Signore, perdonatemi. Non sapevo chi fosse». Cercò di giustificarsi il demone mentre la sua carne sfrigolava al calore delle fiamme che lo avvolgevano.

«Sapevi benissimo chi era. Il suo odore è inconfondibile. La tua ambizione ti costerà cara. La tua vita». Lo condannò senza pietà Dante.

Il viso contorto dalla furia incontrollata che albergava in lui, intensificò l’intensità del fuoco che lambiva Pan, osservandolo bruciare. Le emozioni che aveva tenuto sotto ferreo controllo esplosero distruttive. Una potente aura demoniaca lo circondò.

Densa. Nera. Mortale.

Il satiro rimase stupefatto da quell’attacco, sentì il corpo sgretolarsi senza poter fare nulla per impedirlo, mentre osservava l’ultima immagine che avrebbe visto in vita: la Maschera della Morte.

Dante osservò Pan ardere vivo alle fiamme blu della sua ira, mentre le parole colme d’odio di Amber continuavano a ribollirgli nella mente.

Quella lezione gli era costata cara. Per poco il suo autocontrollo non era andato in pezzi. Lei aveva invocato il suo aiuto, un secondo prima che intervenisse.

No, non avrebbe mai permesso che qualcuno decidesse per lei quale strada seguire, non avrebbe mai permesso al satiro di stuprarla, anche se tutto in lui urlava perchè abbracciasse la sua natura demoniaca.

Maledetta Lilith per averlo messo in quella posizione insostenibile, per punirlo di averla respinta.

Con passo rabbiosso calpestò le ceneri di Pan spargendole senza rispetto. Lanciò uno sguardo glaciale all’ambiente desolato. Era solo. Come sempre.

Svanì nell’aria così come era apparso, un’emanazione delle forze antiche che governavano l’universo dalla notte dei tempi, che mai mente umana o demoniaca avrebbe mai potuto comprendere.